Scafi ridotti a relitti giacciono nel fango, lontano da quella che fu la costa del Lago d’Aral, ormai quasi prosciugato.
Ma la spedizione “Journey of Discovery" scopre una nuova storia, nell’incontro con un gruppo di pescatori intenti a portare nuova linfa al territorio.
Muynak, in Uzbekistan, un tempo florido porto sul grande Lago d’Aral che si estendeva per 68.000 chilometri quadrati, fino al Kazakistan, oggi è una città in rovina. La prosperità di Muynak era legata al grande bacino, all’epoca il quarto al mondo per estensione, ormai praticamente scomparso. Negli anni ’60, l’Unione Sovietica decise di deviare il corso di tutti gli immissari del lago, preferendo destinare la loro acqua all’irrigazione dei vicini campi di cotone. Lentamente ma inesorabilmente questo progetto di cattiva amministrazione provocò una diminuzione del livello delle maree del lago, praticamente fino alla loro estinzione: qui, sul lago di Aral, a differenza di quanto avviene in ogni parte del mondo, la marea, non sarebbe più risalita.
Inevitabilmente il ritiro dell’acqua significò la riduzione del bacino, vecchio di cinque milioni di anni, ad appena il dieci percento delle sue dimensioni originali. Si parla molto di progetti di ripristino del Lago, ma non sembra esserci, da parte dell’Uzbekistan e della Comunità Internazionale, né la volontà, né la forza politica e soprattutto economica per realizzarli.
Le pianure circostanti sono state inoltre irrorate di pesanti pesticidi, mentre un’isoletta - che il prosciugamento del lago ha riunito alla terraferma – è stata impiegata per testare le armi biologiche dell’Unione Sovietica. Nonostante il risultato sia una desertificazione su scala inimmaginabile, un gruppo d'abitanti ha deciso di rovesciare le sorti del proprio territorio.
Qui, i pochi pescatori rimasti conducono una vita assai difficile. All’inizio della scomparsa delle maree avevano cercato di trasferire la loro attività sulla terraferma, anche a costo di importare il pesce dalle altre regioni per sostenere l’industria conserviera locale, anche impiegando il metallo delle carcasse dei natanti finiti in secca per farne contenitori. Senza successo.
Oggi guidare su quello che un tempo era il fondale di un bacino profondo trenta metri d’acqua è un’esperienza strana, resa lugubre dagli scheletri arrugginiti dei battelli arenati per sempre da una marea scomparsa.
Eppure, lungo questo fondale un tempo così fertile resta un piccolo lago, dove i pescatori più coriacei tirano le reti con l’aiuto di un singolo mulo, nel vento ghiacciato dell’inverno, pescando con un’attrezzatura ridotta all’osso. In un’ora di fatica da rompere la schiena riescono a riempire un paio di secchi di pesce, che – stranamente – non sono destinati alla tavola.
“Trasportiamo questi pesci in un’altra regione, dove tentiamo di ripopolare acque che sono in condizioni migliori delle nostre”, ci confida Dilshot Usupov, mentre attende di ritirare le reti. Poi si arrampica su una vecchia autocisterna parcheggiata sulla riva, ne alza il coperchio e m'indica di guardare dentro. Vado e guardo: all’interno è pieno d'acqua sporca che pullula di pesci.
E’ la sorprendente dimostrazione di un’iniziativa semplice, nata dal genuino desiderio di risanare un ambiente e di aiutare l’economia locale in rovina.
“Quando c’era il lago questo era un grande porto, con un’intensa attività economica” si rammarica Usupov “ora l’acqua dista 30 chilometri dalla città, e si è portata via tutta la vita.” Ma la cosa che più colpisce è il fatalismo del suo commento sul futuro del Lago d’Aral: “La natura ha fatto il Lago milioni di anni fa, e solo la natura può restituircelo.” Un commento che avevamo già raccolto, da altri locali, durante il nostro viaggio.
Sembra impossibile che questa gente sia all’oscuro dei progetti d’irrigazione che hanno prosciugato i loro mezzi di sostentamento; si tratta, però, di un remoto angolo del mondo dove le comunicazioni con l’esterno sono estremamente limitate.
In ogni modo, mentre Usupov torna al lavoro nel minuscolo lago, alla sua pesante fatica ed allo scarso pescato, non ho il coraggio di dirgli che la natura non ha niente a che vedere con i suoi problemi, anche se esiste una piccola probabilità che la natura stessa un giorno ne possa diventare la soluzione.
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